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Firenze

Ritratti parlanti della seconda sala
© www.zoomedia.it - vanna innocenti 2 aprile 2009
Seconda sala, dedicata ai “ritratti parlanti” della mostra I MARMI VIVI.
GIAN LORENZO BERNINI E LA NASCITA DEL RITRATTO BAROCCO

Bernini ritrattista al Bargello
Una traccia di lettura
di Beatrice Paolozzi Strozzi Direttore del Museo Nazionale del Bargello

"Si è appena concluso, in America, quello che può considerarsi l’anno del Bernini, con la grande mostra – Bernini and the Birth of Baroque Portrait Sculpture (agosto 2008 - marzo 2009) – che si è tenuta al J. Paul Getty Museum di Los Angeles e alla National Gallery of Canada di Ottawa. In Italia, è questo l’anno di Galileo. Sono forse i due più importanti protagonisti di quell’epoca di mutamenti che fu il XVII secolo, a lungo ritenuti su versanti opposti: interprete e fondatore del Barocco, nelle sue forme più esuberanti e fastose, l’uno; il padre della scienza moderna, del rigore razionale e del metodo sperimentale l’altro.

Eppure sono stati entrambi i profeti di una nuova “verità”, quando il salto oltre la tradizione era ormai inevitabile e occorreva avventurarsi per nuove vie. Gli studi storici hanno assodato da tempo che l’“anima del Barocco” – quella che trova appunto in Bernini il suo campione – non fu solo l’effetto di un mutamento di gusto, ma il segno profondo di un diverso ruolo dell’arte (non solo figurativa) in una diversa civiltà; che comportò la coscienza del cambiamento di orizzonti culturali, la scoperta della piccolezza dell’uomo di fronte all’universo, l’apertura verso nuove, cangianti realtà, entro un contesto storico, morale e politico complesso e per molti aspetti contraddittorio (dunque “moderno”). Nel corso del Novecento, la storia dell’arte ha per parte sua progressivamente superato, fino a capovolgerla addirittura, la condanna illuminista e romantica dell’estetica barocca come riflesso di un’età di decadenza, che chiamava in causa la perdita dell’indipendenza nazionale per il predominio spagnolo e la perdita di libertà spirituale per il peso della Controriforma: per quel che riguarda Bernini, da cinquant’anni almeno e fino a quest’ultimo tributo al suo magistero di ritrattista, gli studi hanno ribadito con convinzione crescente il suo ruolo centrale di interprete di un’epoca intera, quella che nelle scienze, ma non meno nell’arte, fu dei “novatori”. Per dirla con le parole di Bernini stesso, «si potrebbe pur dire, che non ogni cosa è stata provata sin hora, et che resta sempre nuovo paese da scoprire; ò in cielo, con novità di stelle, et di macchie; ò in terra con nuove provincie, con nuovi mestieri, nuove inventioni…».
Queste poche righe di premessa intendono commentare la fortunata occasione della mostra sui ritratti di Bernini (la prima in terra toscana), che si tiene a Firenze nell’anno in cui si celebra Galileo, con numerose iniziative, mostre e convegni: per fare a oggi il punto su quel momento cruciale della nostra storia, questo “appuntamento” fiorentino dei suoi due grandi protagonisti offre un contributo prezioso e molti spunti di riflessione.
Per altro verso, non stupirà che a fronte dell’intera “antologia” del Bernini ritrattista presentata alla mostra americana, quella del Bargello sia stata concepita attorno al tema specifico del “ritratto parlante” e a Costanza Bonarelli - forse il più celebre dei ritratti del Bernini e uno dei capolavori assoluti del museo -, al suo ritorno dalle rassegne d’Oltreoceano.

Pur nella vastità (anche cronologica) e nella varietà dell’opera di Bernini, è certo che la sua fama fu proprio consacrata dai ritratti con cui esordì, poco più che bambino; e che, fra tutti i suoi meriti nel campo dell’arte, uno dei suoi maggiori è quello di aver completamente rinnovato il genere del busto-ritratto, ancora stancamente legato ai precedenti rinascimentali e relegato a genere “minore”, anche per il giudizio riduttivo di Michelangelo: nel ritratto scolpito, Bernini ha certamente toccato vertici di poesia e di “virtù” (nel significato antico di capacità anche tecnica), difficilmente attinti prima e dopo di lui.
Una peculiare, costante attenzione dell’artista alla pittura non fu estranea a questo prodigioso rinnovamento, riconoscibile fin dalle sue prime prove: consapevole che proprio dai grandi “moderni” – da Caravaggio, ad Annibale Carracci, al Rubens – occorreva ripartire per adeguare il lessico scultoreo ormai superato agli straordinari risultati che i pittori avevano già raggiunto nei “quadri di ritratto”. Non a caso, la mostra del Bargello presenta a confronto con gli esordi berniniani il celebre e “parlante” Monsignor Agucchi (circa 1603), di Annibale Carracci, maestro ideale del giovanissimo Gian Lorenzo, che fu poi sempre “praticante” anche di pittura (due i suoi Autoritratti in mostra). Sono dunque straordinari ritratti dipinti di maestri allora attivi a Roma a scandire il susseguirsi dei busti berniniani, in un “crescendo” di vivacità espressiva: dall’esordio con il Ritratto di Antonio Coppola, che scolpisce a quattordici anni appena (1612), fino ai vertici raggiunti nei tre “ritratti parlanti” – Scipione Borghese, Costanza Bonarelli, Thomas Baker – eseguiti nel quarto decennio del secolo, con cui la mostra si conclude. Entro quest’arco cronologico relativamente breve, si illustrano così le tappe salienti del Bernini ritrattista, a cominciare dalle opere della giovinezza, che attestano la sua già eccezionale sapienza nella tecnica scultorea e nella capacità di cogliere il “carattere” degli effigiati: come nei ritratti dei cardinali Escoubleau de Sourdis e Peretti Montalto, o in quello di Antonio Cepparelli, tutti realizzati entro i primi anni venti, fino all’ascesa al papato di Urbano VIII (1623), il fiorentino Maffeo Barberini. A lui e ai suoi progetti grandiosi Gian Lorenzo dedicherà da allora, per più di vent’anni, ogni suo pensiero e tutto il suo fervore creativo, affidando a giovani di studio – soprattutto, al valentissimo Giuliano Finelli, carrarese – i ritratti che tutta Roma gli chiede, ma che ora concede quasi soltanto al papa. Bernini lo ritrae più volte in marmo, in bronzo, perfino su tela, come attesta il dipinto esposto, accanto al marmo e ai bronzi fastosi, che viene da palazzo Barberini e mostra lo stile berniniano in pittura, attorno al 1630: spavaldo e “scolpito” nel tocco, come ce lo aspetteremmo, in sfida aperta con i modi del Cortona – posto a confronto con il suo Cardinale Giulio Sacchetti – ma invece sicuramente attento ad altri contemporanei, come Rubens e i suoi allievi, a cominciare da Van Dyck; o caravaggeschi come Simon Vouet, allora ammiratissimo a Roma per le sue “teste espressive”; e come Valentin de Boulogne, che ritrae “al vivo” Raffaello Menicucci, il “buffone” del papa. Con simili esempi pittorici – presenti alla mostra e scelti fra i tanti possibili – Bernini si misura però soprattutto per animare la sua scultura e arrivare a tradurre nel marmo gli effetti di movimento, di luce, di immediatezza espressiva che il colore più facilmente consentiva: ben più che nel ritratto dipinto, che ha un carattere quasi “privato”, è nel busto marmoreo di Urbano VIII che riesce ad esprimere quell’attitudine complessa – quel «bel composto», come lo chiama – che sappia unire nel ritratto la maestà del ruolo e la personale “suavità” del papa.

Parenti e “familiari”, i busti-ritratti per la “galleria” barberiniana che aveva cominciato a scolpire anni prima, passano così dalle sue mani a quelle di Finelli: cui spetta forse in parte il busto di Antonio Barberini il Vecchio (1626); ma, salvo l’“invenzione” berniniana, pressoché per intero quello della sfortunata Maria Barberini Duglioli, morta di parto a vent’anni, immortalata nei trafori strabilianti, fragili come trame di ghiaccio, del gran colletto di pizzo che incornicia il volto paffuto dal vacuo sorriso, ma dai capelli superbamente arricciati e dal corsetto ornato su cui s’appunta, all’altezza del cuore, l’ape simbolo dei Barberini. È un segno finelliano che ricompare – quasi inquietante nel suo naturalismo da entomologo “linceo” – non solo sul basamento dei busti di Antonio il Vecchio e di Francesco di Carlo Barberini (purtroppo non concesso dalla National Gallery di Washington), ma con le ali aperte e pronta al volo, in quello di Michelangelo Buonarroti il Giovane, capolavoro di Giuliano e uno dei più bei ritratti del secolo: realizzato poco dopo la rottura col Bernini (1629), al pari di altri che assieme a lui compaiono in mostra – il poeta Francesco Bracciolini, un ignoto Gentiluomo, il cardinale Scipione Borghese – a dar finalmente luce a questo scultore, che è ben di più che un degno comprimario. Non pare Finelli, invece, il collaboratore finora ignoto cui Bernini dovette affidare almeno il completamento del busto di Virginio Cesarini, il giovane poeta morto di tisi nel 1624, proveniente dal cenotafio che il papa aveva voluto per lui in Campidoglio: per la prima volta visibile a tutto tondo e a diretto confronto col superbo ritratto che Van Dyck gli aveva fatto a Roma, un anno prima. Così, il “paragone” fra le due arti, nel campo del ritratto, fra il terzo e i quarto decennio del secolo, si fa diretto nelle sale della mostra, proprio come era avvenuto a suo tempo nella cerchia più stretta di papa Urbano VIII.

Nella seconda sala, dedicata ai “ritratti parlanti” – speaking likeness, secondo la definizione resa famosa dal Wittkower – i più celebri busti berniniani non solo si confrontano con quelli di Finelli e dell’Algardi (cui ora prevalentemente si riferisce lo splendido Gentiluomo del Bode-Museum), ma con le figure davvero “parlanti” del doppio Ritratto dei fratelli Wael, dipinto a Genova qualche anno prima da Antoon van Dyck; o con l’ignoto giovane Gentiluomo che Diego Velázquez – ammiratissimo dal Bernini - forse dipinse a Roma nei primi anni trenta. Suo anche il Ritratto di Francesco I d’Este, il duca di Modena, che Gian Lorenzo ritrarrà più tardi (1651) in un fastoso, algido marmo: invece il dipinto, eseguito dal vero a Madrid nel 1638, ha la freschezza d’un bozzetto e un approccio immediato e accattivante con lo spettatore, che ben si prestano a un confronto con il ritratto “parlante” dell’eccentrico Thomas Baker, eseguito dal Bernini nello stesso anno (e di nascosto dal papa). Sulla parete di fondo, il magnifico Cardinale Giulio Bentivoglio di Van Dyck, che interrompe la lettura e volge la testa verso un invisibile visitatore, vale il doppio confronto in scultura con i due busti-ritratto del cardinale Scipione Borghese, entrambi del 1632: l’uno, interessante e meno noto, di Giuliano Finelli (dal Metropolitan di New York); l’altro, dalla Galleria Borghese, che è il primo e celeberrimo “ritratto parlante”, scolpito all’amico e mecenate – il “Cardinal Padrone” – appena un anno prima della morte, da Gian Lorenzo Bernini. Al pari suo, per fama e per importanza nella storia della scultura, soltanto Costanza Bonarelli (1637), capolavoro del Bargello e ragione di questa mostra: la donna furiosamente amata, dove Bernini seppe «far carne il marmo», superando perfino la “verità” della pittura, come attesta il confronto con l’intenso e sensuale ritratto che Rubens aveva dipinto una decina d’anni prima alla sua prima moglie, Isabella Brant. Proprio come l’aveva sistemato un tempo nel suo atelier, il busto di Costanza è rivolto verso l’Autoritratto dell’artista, che risale a quegli anni: perché i loro sguardi possano incontrarsi ancora una volta e perché Gian Lorenzo possa di nuovo ascoltare quello che Costanza ha da dirgli. Quanto a noi, potremo domandarci davanti a questa figura di donna, se per caso – per una volta – non avesse torto Galileo a sostenere che la scultura non avrebbe mai potuto raggiungere lo stesso grado di “illusione” di verità della pittura, perché «la scultura non inganna punto, né vi fa creder mai quello che non sia tale».

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Pagina pubblicata il 10-04-2009 - Aggiornato il 07-Giu-2015