Splendori
del Gotico da Giotto a Giovanni da Milano
Alla Galleria degli Uffizi: "L'eredità di
Giotto"
Arte a Firenze 1340-1375
"L'eredità di
Giotto" , Giotto di Bondone - Polittico con il "Cristo benedicente
fra San Giovanni Evangelista, la Vergine, san Giovanni Battista e san Francesco
d'Assisi" dipinto intorno al 1315; una delle "quattro tavole" che con le
"quattro cap(p)elle" Giotto
dipinse
"nell'ordine
dei frati minori", cioè nella chiesa di Santa Croce a Firenze, come testimoniato
nei "Commentari" del Ghiberti nel 1450 circa. L'opera è conservata nel North
Carolina Museum of Art, Kress Collection dal 1960.
"L'eredità di
Giotto" Arte a Firenze 1340-1375
-Firenze nel Trecento.
La tempesta e la gloria
-Presentazione
alla Galleria degli Uffizi, Firenze
dal 10 giugno al 2 novembre 2008.
All’inizio del Trecento Firenze è una delle grandi metropoli d’Europa,
forse la maggiore. Popolosa, bella, ricca come Parigi e assai più di Londra.
Centro manifatturiero
di prima grandezza, capitale dei commerci, luogo geometrico della finanza alla
quale si rivolgono tanto la
business community internazionale quanto i regnanti. Fioriscono gli scambi, dilaga
il benessere,
fervono i lavori pubblici, si affermano arti e prodotti dell’ingegno.
Dante scrive la Commedia (il viaggio
nell’aldilà si svolge proprio nel
1300), Arnolfo getta le basi di Santa Maria del Fiore, Giotto progetta il suo
svettante campanile e in pochi anni si costruiscono il futuro Palazzo
Vecchio,
una nuova grande cinta muraria e la rete di strade che spalanca la città al
mondo.
Ciò che fa sempre più difetto è invece
la stabilità politica.
Le ricadute locali del conflitto papato-impero accendono continue guerre
di fazione tra popolo minuto e nobiltà,
tra Guelfi e Ghibellini.
Sconquassi si sommano a sconquassi e a non pochi rovesci militari che ledono
pesantemente prestigio e tenuta del libero Comune: prima i pisani guidati
da Uguccione della Faggiola (Montecatini, 1315), poi i lucchesi di Castruccio
Castracane (Altopascio, 1325) travolgono le supponenti milizie fiorentine,
costringendo la città minacciata ad affidarsi a una signoria esterna,
gli angioini di Carlo di Calabria.
Il trattato di Montopoli, che nel 1329
riporta la pace rendendo inutile la stessa tutela degli Angiò, riporta
anche la sospirata prosperità. Al punto che le entrate annue
del Comune toccano la cifra, stratosferica per l’epoca, di 300.000
fiorini d'oro. Più che un tesoretto, un
tesorone enorme che alimenta equivalenti investimenti: nascono ospedali
e pellegrinai, chiese e basiliche, monumenti vari e preziose infrastrutture,
che una nuova generazione di artisti orna di capolavori indiscutibili:
sono i Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi, Maso di Banco, Orcagna, Giottino,
Giovanni da
Milano, solo per citarne alcuni, ovvero i principali eredi
del grande innovatore Giotto da Bondone, i mirabili artigiani
oggi al centro delle mostre agli Uffizi e all’Accademia.
Non bastassero le lotte fratricide e le guerre per l’egemonia
in Toscana (contro Pisa, Arezzo, Lucca, Pistoia, Cortona) che tornano ad
esplodere,
la prima metà del secolo è marcata
da calamità gravissime: nel 1304 un furioso
incendio distrugge migliaia
di edifici, dal 1315 al 1317 imperversa una dura carestia,
nel 1333
l’Arno
travolge la città, mentre tra il 1342 e il 1346
una crisi economica senza precedenti segue il crack dei super banchieri
Bardi, Acciaioli e Peruzzi, portati al fallimento dall’insolvenza
dei grandi clienti europei (corona inglese compresa).

©www.zoomedia.it 9 giugno 2008
"L'eredità di
Giotto", teca con i frammenti di un "Antifonario per il Comune
e Proprio dei Santi" dei Miniatori Fiorentini attivi tra il 1348
e al 1360 circa.
Foglio con iniziale "I" con San Giovanni
Battista che parte per il
deserto", conservato a Milano in collezione privata.
Poiché al peggio spesso non c’è fine,
due anni dopo (1348) il culmine della disgrazia si materializza con
la Peste
Nera che Boccaccio descrive nel Decameron.
L’epidemia
semina morte e terrore in tutta Europa, un bilancio
così tragico
che ci vorranno tre secoli per recuperare i livelli demografici di ante
peste. Solo nel 1600 la popolazione europea avrebbe ricominciato a crescere.
A Firenze dei 120 mila abitanti ne sopravvivono sì e no 40
mila.
L’apocalittico scenario sconvolge inevitabilmente l’intera
società, investe i modelli di comportamento, marchia le psicologie
individuali e collettive, si riflette nelle opere d’arte e nel costume.
Per la Chiesa e i moralisti in genere la pestilenza non può che
essere un castigo del cielo al quale reagire con
dure penitenze e una vita di rinunce. C’è che alla maggioranza
della gente non sfugge l’indifferenza del morbo, che colpisce con
pari cecità buoni e cattivi, prelati e governanti,
artisti e soldati, donne e uomini, vecchi e giovani. Una laica rassegnazione
si affianca così ad angosce
e smarrimenti della prima ora: se morire si deve, tanto vale spassarsela.
Non pochi cronisti registrano il fenomeno: per quanti si danno
a preghiere e
contrizioni, scrive Boccaccio nel Decameron, "altri in contraria opinion
tratti, affermavano
il bere assai e il godere e l'andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare
d'ogni cosa all'appetito
che si potesse e di ciò che
avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e così come
il dicevano il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella
taverna ora a quella altra
andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per
l'altrui case facendo, solamente
che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere".
Questa spettrale eccitazione resta tale anche quando il peggio è ormai
alle spalle. Altro che ringraziare Dio per averla scampata! Nella sua Cronaca
Matteo Villani ricorda
che i sopravvissuti "…
trovandosi pochi, e abbondanti per l'eredità e successioni dei beni terreni,
dimenticando le cose passate
come se state non fossero, si diedero alla più sconcia e disonesta vita
che prima non avieno usata…”. All’ansia penitente dei flagellanti si
oppone un atteggiamento più terrestre,
più attento all’aldiquà, meno rassegnato e forse più umano.
Molti anni dopo, il Magnifico Lorenzo lo
avrebbe tradotto nell’invito immortale “chi vuol esser lieto sia,
del doman non v’è certezza”.
Paradossalmente, anche se non troppo, la peste alimenta la domanda di lusso e
trascina in alto il tenore di vita. Al punto che, a epidemia conclusa, Firenze
deve introdurre
nuove imposte per arginare la tendenza. C’è che dopo la grande paura
la gente ha certo timor di
Dio, ma vuole forse soprattutto divertirsi. Sentimenti che molti artisti probabilmente
condividono.
Come interpretare altrimenti
i ricchi abiti alla moda delle sante
martiri di Giovanni da Milano?
Ne’ mancano evidentemente le risorse, giacché la strage ha liberato
immense eredità che beneficiano a caso tutti i ceti, migliaia di persone
che d’un tratto si
scoprono tanto più ricche o non più povere. Così Marchionne
di Coppo Stefani racconta lo stupore dei sopravvissuti: "E
tale che non aveva
nulla si trovò ricco, che non pareva che fusse suo, ed a lui medesimo
pareva gli si disdicesse. E cominciorno a sfogiare nei vestimenti e ne' cavagli
e le donne e gli uomini".
Ad approfittare della situazione sono soprattutto
ordini religiosi e confraternite
che, mai come nella circostanza, accumulano beni e ricchezze grazie ai lasciti
testamentari di una moltitudine di moribondi in disperata ricerca di benemerenze
per il viaggio all’altro
mondo.
La peste rivoluziona la città anche fisicamente. Al
culmine demografico la Firenze popolare è un groviglio di case per
lo più minuscole, che la morte improvvisamente
svuota. Chi resta può quindi allargarsi e ha i mezzi per farlo. Tanti
edifici distinti vengono così accorpati
in strutture uniche, si creano nuovi grandi palazzi, si abbatte, si trasforma.
Si innesca peraltro una spirale inflazionistica che incide pesantemente sul
costo della vita.
Manca la manodopera, quindi crescono i salari, ma anche
i costi di produzione. Nelle campagne spopolate l’agricoltura tracolla
e di conseguenza i prezzi dei generi alimentari vanno alle stelle. Tutto
diventa carissimo, causa non ultima delle rivendicazioni che nel 1378 culmineranno
nella rivolta delle
classi lavoratrici passata alla storia come tumulto dei Ciompi.
Tra i grandi mutamenti indotti dalla Peste Nera quello di
più vaste conseguenze
riguarda comunque la mentalità del tempo. Se il clima d’incertezza
disincentiva gli investimenti sul futuro favorendo semmai sperperi di energie
e risorse, la riscoperta del valore della vita, del piacere personale e l’accresciuto
gusto per le cose belle contribuiscono a innescare quel processo di profondo
rinnovamento culturale che, attraverso una inedita
concezione dell’uomo
e del creato, avrebbe portato all’Umanesimo e al Rinascimento.
L’uso del denaro segue in gran parte questo itinerario:
piuttosto che a finanziare le attività produttive, gli ingenti patrimoni
figli della peste servono ad acquistare opere d'arte. Teoria controversa,
ma alquanto affascinante.
Di lì a non molto, comunque, la scena di Firenze sarà dominata
dai grandi del Rinascimento, i Masaccio, Botticelli,
Filippino, Piero della Francesca, Donatello, Michelangelo, Ghiberti, Brunelleschi,
Leon Battista
Alberti, Leonardo. Un concentrato di
geni in poche centinaia di metri come mai si è visto a memoria d’uomo.
Nulla può invece la peste contro lo spirito di fazione.
Anche nella Firenze decimata continuano le guerre fratricide, le rivalità assassine,
gli esili decretati ora per un clan, ora per l’altro.
Discordie che porteranno alla morte della Repubblica,
al dominio di uno solo e, infine, al lungo regno della dinastia
medicea.