Giovanni Paszkowski
L'ora sospesa
21 settembre - 11 novembre 2006
Museo Marino Marini, Firenze
Nell'ambito del ciclo di esposizioni "Controcampo",
organizzato dal Museo Marini di Firenze, a cura di Antonio Natali, dedicato
agli artisti
fiorentini e toscani che svolgono la loro ricerca nell'ambito della tradizione,
il museo ospita la mostra di Giovanni Paszkowski dal titolo "L'ora
sospesa".
Presentazione di Carlo Sisi
L'ora sospesa di Antonio Natali
Senza calma né ansia di Federica Chezzi
L'ORA SOSPESA di Antonio Natali
Giovanni Paszkowski non gradisce si dia troppo risalto alla sua parentela
con Papini, che gli fu nonno materno e gli passò pure il nome di
battesimo.
Come càpita a chi abbia in famiglia precedenti illustri,
anche lui non vuol covare dentro di sé il sospetto che si guardi
alla sua espressione con la mente e il cuore oscurati da un'ombra troppo
lunga e invadente; quasi che per quell'ombra (più che per meriti
personali) si debba esser tenuti in conto.
E il rischio davvero c'è.
Ma d'altronde - quella della consanguineità con Papini - non è notizia
che si possa tacere a chi intenda accostarsi alle opere di Giovanni.
Penso,
anzi, che dopo le sue ultime mostre fiorentine 1, dove s'è potuto
conoscere la poesia elegante e insieme austera che segna ogni sua creazione,
sia arrivato il momento per qualche riflessione di natura storica, che
segnatamente insista sulla formazione di lui anche come intellettuale.
È
difficile, per esempio, figurarsi ininfluente alla sua crescita la frequentazione
di casa sua (quando lui era adolescente) da parte di scrittori e pittori
fra i più in vista di quella stagione. Né sarà stato
di scarso peso l'esercizio creativo per le copertine dei libri che Enrico
Vallecchi pubblicava a Papini, e che il nonno, lungimirante, affidava alle
cure inventive d'un nipote che si mostrava di precoce sensibilità.
E poi le discussioni con lui.
Il confronto coi grafici di mestiere.
I commenti
degli uomini di cultura, ch'erano amici di famiglia.
In quegl'incontri Giovanni si sarà forgiato il gusto. E non sarà mancato
chi gli abbia additato modelli eleganti e aggiornati; chi l'abbia spinto
alla spregiudicatezza; chi gli abbia fatto notare la nobiltà della
linea classica ovvero la solidità della tradizione.
Nel 1948, quando
aveva soltanto quattordici anni, Papini lo mette alla prova chiedendogli
la copertina di Passato remoto. 1885-1914 [figura 1].
Il carattere che
l'adolescente adotta per le lettere (in capitale) è il romano.
Autore e titolo: in alto. Editore e città di pubblicazione: lungo
il margine basso. Tutto, secondo tradizione, appunto. Al centro la figurazione:
una
strada lunga in scorcio prospettico, con fuga centrale. Ai lati: due
quinte di case (in piena luce a sinistra; in ombra buia a destra). E
sulla via,
bianca di sole, una decina di personaggi punteggiano d'ombre il selciato:
tutti, solitari e muti. È una veduta di paese che serba memoria
delle strade rosaiane e degli attori che rari le animano, con quell'aura
metafisica che generano i muri senza finestre o le dimore con poche aperture
vuote. Ma è anche una veduta che riaggallerà alla mente
quando, scendendo nel tempo, ci s'imbatterà negli assorti e silenti
protagonisti delle ribalte urbane di Giovanni, nei loro percorsi fra
edifici razionali
o attraverso parchi rigogliosi di verde ma deserti d'uomini.
Quelli erano
anche gli anni del dibattito fra chi sosteneva la fedeltà alla
tradizione e il conseguente realismo (proponendone magari letture sociali),
e quelli che (sovente anche nell'àmbito della medesima ideologia
politica) credevano si dovesse radicalmente mutare registro, prospettando
una trascrizione astratta del mondo e degli stati d'animo. E di quella
dicotomia si sarà ragionato anche nei convegni nello studio
di Papini. Giovanni junior presente; o comunque in ascolto. Lui che
intanto
aveva
preso a frequentare l'Istituto di Porta Romana; dove seguiva le lezioni
d'arti grafiche di Pietrino Parigi; artista che gli era magari già familiare,
sempre in virtù di quella cerchia intellettuale che aveva la
fortuna di sperimentare quotidianamente. E alla scuola di Porta Romana
ebbe l'agio
di conoscere e frequentare giovani a lui consentanei, dei quali - com'è accaduto
con Mario Fallani - sarebbe diventato anche amico.
Che abbia fin da
subito recepito gl'insegnamenti del maestro riuscirà facile
da comprendere, ora che s'è visto la copertina di Passato
remoto; che - quantunque disegnata poco prima dell'iscrizione all'Istituto
d'arte - potrebbe invece ben essere una xilografia uscita da uno
degli
allievi
di Parigi. Segnandosi a quella scuola, Giovanni mostra la sua intenzione
di perfezionare in quelle stanze, allora prolifiche d'artefici di
rango, un'educazione che s'è vista germinare a contatto dei
pittori e degli scultori ch'erano sodali di Papini. Ardengo Soffici,
prima
di tutti; che
Giovanni, ventenne, ritrae con pochi - e già magistrali -
tratti d'inchiostro, seduto accanto a Papini (entrambi effigiati
con così perspicua
aderenza alle loro peculiarità somatiche da non lasciar campo
a dubbi sull'identità) [figura 2]. Ma insieme a Soffici c'erano
Carlo Carrà, Ottone Rosai, Arturo Dazzi, Gianni Vagnetti,
Francesco Messina, Primo Conti.
Giovanni si addestra nell'incisione
e nel contempo séguita a disegnare
copertine per i libri di Papini. Le invenzioni che seguono quasi
a ruota quella di Passato remoto rivelano uno scatto ch'è forse
da mettere in relazione con la vitalità culturale dell'Istituto
d'arte di quell'epoca. Nel 1951 Vallecchi pubblica Il libro nero
e ripubblica Gog, uscito nel
1931 [figure 3 e 4]. Per entrambe le copertine Giovanni disegna
di persona i caratteri delle lettere: sempre capitali; ma stavolta
di
gusto arcaico,
con tratti naïf. E del pari primitivo è l'ascendente
che informa la figurazione. L'interesse s'è spostato dal
dato naturale all'essenzialità della
forma. Insomma - pensando alla Firenze di quegli anni - i riverberi
rosaiani paiono aver lasciato il campo agli echi dell''astrattismo
classico' nella
sua lezione più istintiva.
Quasi coeva (sempre da Vallecchi) è la
copertina per Il crepuscolo dei filosofi (1953) [figura 5]. Qui,
l'ascendente metafisico, che dianzi
si sentiva aleggiare nella visione raggelata della strada fra le
case, viene allo scoperto, decisamente additandone la fonte nei
teatri inquieti
e silenziosi in cui Giorgio De Chirico calava i suoi ellenici marmi.
E però l'impianto scenico in cui si drizzano le due acefale
statue antiche di Paszkowski (una panneggiata d'un peplo, l'altra
parzialmente
nuda) potrebbe anche averlo concepito proprio uno di quei fiorentini
ch'era del giro stretto dell''astrattismo classico'. Quelle geometriche
campiture
di cromie dissonanti e d'angoli vivi non reputo siano estranee
alle coeve impaginazioni di Gualtiero Nativi. In una commistione
d'ascendenti che
in fondo pertiene ai giovani in cerca del proprio indirizzo.
Portati a compimento gli studi, Giovanni entra come grafico alla
Casa editrice Bemporad Marzocco. Poi s'apre per lui la prospettiva
d'un
lavoro a Milano:
la città moderna per l'Italia di quei tempi; la città più internazionale
(e, per gli artisti, la più americana). Esordisce alla
Mondadori; ma riesce, dopo poco, a realizzare il desiderio di
sciogliere l'estro in
ambito pubblicitario. Negli anni d'oro del rigoglio economico
lavora per aziende anche di gran nome. Non tocca matite e pennelli
se non per buttar
giù sulla carta - traducendo in figura le idee - immagini
evocative capaci di presa sulla fantasia della gente. La sua
attività è tutta
volta al mestiere - creativo, e dunque artistico - giustappunto
di grafico.
Il pungolo d'una committenza esigente e quello d'una
concorrenza agguerrita lo inducono (se mai ce ne fosse bisogno)
a un continuo
aggiornamento
dell'espressione. Lo sguardo oltralpe e di là dall'oceano è d'obbligo.
Le novità formali
che stimolano il suo estro s'innestano - conforme a quanto s'è visto
negli altri pittori di 'Controcampo' - su una tradizione geneticamente
assimilata e poi riletta col conforto di maestri autorevoli.
Ma con Giovanni, a differenza dei fiorentini che gli son coetanei
e che son passati (per
'Controcampo') dal Museo Marini, non s'avrà modo di verificare
- nei quadri - quale sia stato l'impatto dei linguaggi vigenti
nel sesto
e nel settimo decennio del secolo che s'è chiuso (l'informale
prima, la pop art poi).
Il suo percorso si potrà non di
meno seguire osservando le tracce lasciate dalle formule scelte
pei suoi messaggi figurati. Nel 1958, ancora
a Firenze, pubblicizza per committenti statunitensi una marca
di televisori [figura 6].
L'illustrazione punta sui rapporti
familiari secondo un'etica
e un'estetica esplicitamente americane: un volto solare di donna
prende tutto lo schermo, e ad esso guarda serena una coppia di
giovani sposi.
Lo mette subito in chiaro la fede esibita in primo piano dalla
mano sinistra di lei, teneramente posata sulla spalla del marito.
Ai sociologi però il
contenuto. A noi interessa il tracciato grafico di Giovanni.
Il carboncino che talora parte in falcate lunghe, ma che più spesso,
come fosse il sensore d'un sismografo, prende a zigzagare veloce,
ispessendosi per
via d'un istinto gestuale, è lo stesso che connota tutta
la produzione di Giovanni; a partire dai primi ritratti virili
a mezzo busto, per i quali
a giusta ragione s'è richiamato ora Alberto Giacometti,
ora Graham Sutherland [figura 7]. Artisti che già allora
dovevano essere fra i prediletti di lui.
Negli anni sessanta,
a Milano, gli toccano allogagioni importanti. E di nuovo verrà di
vagliare le relazioni coi linguaggi della pittura. Sono due le
pubblicità che vien di considerare: quella dell'Omsa
e quella della Piaggio. È segnatamente nella prima che
risulterà palese
l'influenza delle immagini pop [figura 8]: le gemelle Kessler
(già di
per sé, a quell'epoca, indiscusse icone popolari) si dispongono
a comporre un vaso dal quale emerge il busto di Don Lurio (altra
figura iconica consacrata dalla televisione). Difficile dire
se quel dado, coi
suoi cinque punti calcati, solo a noi (che ormai s'è digerita
e fatta nostra la cultura di Andy Warhol e Roy Lichtenstein)
parrà il
vero protagonista, o se, anche in quei tempi, sarà così sembrato
ai più. Certo è che il cubo bianco gigantesco (totem
misterioso su cui posano le cosce più celebri dell'Italia
d'allora) e quella luna piena che circoscrive lo slogan, rinviano
la nostra mente alle figure
che i padri della pop art s'inventarono per la loro esegesi della
civiltà moderna
(dileggio politico o masochistica attrazione che fosse).
Parimenti
influenzate dall'ideologia pop parranno le immagini studiate
per pubblicizzare - nei primissimi anni sessanta - la
Vespa [figure
9 e 10]. Al cospetto però degli scatti fotografici concepiti
per l'occasione, si dovrà soprattutto valutarne la valenza
precognitiva rispetto a scelte espressive che pertengono a opere
anche recenti di Paszkowski.
Per la promozione di quello scooter Giovanni relega in un angolo
l'oggetto medesimo da esibire. Dà invece risalto a chi
dovrà godere
del mezzo: la Vespa rappresenta la libertà e l'autonomia
concesse a chi non necessariamente dispone di molto danaro. Sicché di
nuovo a una coppia giovane (a quell'epoca i giovani erano, più che
mai, protagonisti d'ogni pubblicità) s'affida il compito
di comunicare questa sensazione. E l'invenzione consiste nel
riprendere dall'alto, in
uno scatto ravvicinato, l'uomo e la donna seduti sulla sella
delle due ruote. Della Vespa si vede (e nemmeno integralmente)
solo la parte anteriore.
Sono le due figure a reggere l'impaginazione: la donna, che sta
dietro, esprime a pieno volto sentimenti ora trasognati ora di
gioiosa serenità;
dell'uomo invece a mala pena si scorge qualche cenno somatico:
la sua s'intuisce essere l'attitudine concentrata di uno ch'è alla
guida. Ma chi ha nozione dei quadri di Giovanni non tarderà a
ravvisare nel taglio stesso delle foto un'affinità tenace
con talune istantanee da lui dipinte: in Passaggio pedonale,
del 2000, per esempio, proprio dall'alto è ritratto
un uomo nell'attimo in cui traversa la strada camminando sulle
strisce [figura 11].
Non a caso tuttavia s'è parlato d'istantanee.
Sia nella pubblicità della
Vespa che nel quadro ora evocato, si raggela l'attimo. Lì un
colpo di flash da una finestra blocca la coppia in un momento
della sua corsa;
qui, dalla stessa finestra, si scatta la foto a una figura in
transito sull'attraversamento pedonale. Ma è questo, forse,
il tratto saliente della disposizione lirica di Giovanni: l'aspirazione
a cogliere - in un
lampo - un'attitudine, una postura, una sensazione, una riflessione;
per poi lasciarle sospese. La sospensione dell'ora. L'incanto
del tempo. Come
giustappunto titolavo alcune mie pagine pensate per un'esposizione
d'opere sue 2.
E sono concetti che di nuovo (ma stavolta anche
dietro lo stimolo indiretto d'altri) inducono a rimeditare sulle
relazioni di lui
con Papini. È stato
Maurizio Calvesi a congetturare una matrice papiniana per la
pittura metafisica di De Chirico; e l'ha fatto partendo dalla
semplice constatazione che il
primo quadro metafisico - L'enigma di un pomeriggio d'autunno
- De Chirico lo dipinge nel 1910 a Firenze, una città che
aveva proprio in Papini l'intellettuale di spicco. Ebbene - invita
a considerare Calvesi - in quei
tempi Papini aveva già assimilato nella creazione letteraria
taluni concetti di base della 'metafisica' ("facendo anche
largo uso [Są] di questa parola"3). Primo fra tutti, quello,
particolarmente caro a De Chirico, secondo cui anche gli eventi
più comuni possono esser
valutati come inediti e insoliti.
E Calvesi, sempre pensando a
De Chirico (mentre noi, secondando i suoi stessi ragionamenti,
principiamo a sorvegliare con altro
spirito
i
quadri di Giovanni) riporta un brano desunto dalla seconda prefazione
(ai filosofi)
de Il tragico quotidiano di Papini, 1906: "La nostra meraviglia
e la nostra paura derivano dalla rarità delle cose che
le producono e niente ci può far credere che alcune cose
abituali non contengano, virtualmente, una maggiore meravigliosità di
quella che alcuni cercano nelle avventure e negli spettacoli
più singolari [...]. Noi viviamo
in mezzo a delle cose che non ci sembrano miracoli unicamente
perché si
ripetono troppo [...]. Io ho voluto far scaturire il fantastico
dall'anima stessa degli uomini, ho immaginato di farli pensare
e sentire in modo eccezionale
dinanzi a fatti ordinari [...]. Invece di condurli in mezzo a
peripezie bizzarre, in mondi non mai veduti, in mezzo ad avvenimenti
incredibili,
li ho posti davanti ai fatti della loro vita ordinaria, quotidiana,
comune ed ho fatto scoprire a loro stessi tutto quello che c'è in
essa di misterioso [...]. Noi siamo abituati a quest'esistenza
e a questo mondo,
non ne sappiamo più vedere [...] gli enigmi [...] e ci
vogliono ormai degli spiriti straordinari per scoprire i segreti
delle
cose ordinarie.
Vedere il mondo comune in modo non comune: ecco il vero sogno
della fantasia" 4.
Ma l'attitudine speculativa e quella affettiva
di chi guarda il mondo come fosse un fanciullo che l'esperienza
ancora non
abbia
reso indifferente
al mistero d'ogni evento (anche il più comune), sottende
una differente cognizione e una diversa dimensione del tempo.
Un tempo ch'è fermo;
sospeso, giustappunto. E ancora soccorre l'esegesi di Calvesi;
con la sua ipotesi di connettere l'esperienza metafisica di De
Chirico alla conoscenza
di Papini.
L'enigma dell'ora - con l'orologio bloccato - è un
dipinto che non può prescindere, a questo punto, dalle "immagini
papiniane del tempo sospeso", segnatamente rimontando al
racconto che Papini titolò L'orologio fermo alle sette 5.
Ecco, io trovo che la disposizione di Giovanni al cospetto della
realtà abbia molto a che fare con
questi pensieri di Papini; pensieri che De Chirico avrebbe poco
dopo svolto secondo una sua personale (e direi razionale e filosofica)
visione del
mondo e che invece Giovanni - più portato all'emozioni
e a sentimenti di caritatevole riflessione - traduce in un trasporto
prolungato e casto
verso tutto ciò che gli sta d'intorno e che lui 'ferma',
come fosse un'istantanea dell'anima.
La mente torna a un racconto
di Papini, Lo specchio che fugge: "Immaginate
che tutto il mondo si fermasse ad un tratto, in un certo istante,
e che tutte le cose restassero in quel punto in cui erano, e
che tutti gli uomini
diventassero immobili, quasi statue, in quella posa in cui erano
in quel momento, in quell'atto che stavan compiendo...
Se questo
accadesse e che
nonostante tutto ciò continuasse ancora negli uomini il
pensiero, ed essi potessero ricordare e giudicare quello che
fecero e quello che
stavan facendo, e potessero considerare tutto quello che hanno
compiuto fin dalla nascita e ripensare a quello che volevan compiere
prima della
morte, immaginatevi quanta disperazione brucerebbe sotto il tragico
silenzio di questo mondo arrestato all'improvviso!" 6.
Credo
non ci siano parole più icastiche per accostarsi ai quadri
di Giovanni.
Chi li conosce non potrà fare a meno di vederne
le premesse inventive nella prima parte del brano; escludo però che
pertenga alla sua indole quieta e fiduciosa la tragicità della
chiusa.
Gli uomini che salgono o scendono per le scalinate d'accessi
ai binari di metropolitane [figura
12], o s'intravedono per metà - immobili sulla via - al
colmo di gradinate deserte [figura 13], o entrano improvvisi
(subito bloccati) nel
campo visivo d'una vetrata, di là, nel verde di parchi
rigogliosi [figura 14], o s'arrestano - muti e assorti - all'uscita
d'un grattacielo
[figura 15], sono emblemi di quel che Papini si figura nella
paradossale ipotesi letteraria che lui formula. Non scorgo però disperazione
- ma su questo si tornerà fra poco - nelle ribalte di
vita che Giovanni, pur con quelle premesse, si finge.
Col che
mi pare si cominci a trovare riscontri affidabili alla prospettiva
critica enunciata in esordio; in base alla quale
l'analisi degli
anni da Giovanni trascorsi vicino a Papini risulta perfino indispensabile
alla
comprensione della sua espressione figurativa; di quella odierna
e
di quella iniziale. Di quella cioè che prende a praticare
sulla metà dell'ottavo
decennio. Un'attività - quella pittorica - che diventa
esclusiva quando lui, nel 1994, decide di lasciare il mestiere
di grafico.
I suoi primi soggetti sono piccoli uccelli, che esanimi
posano su piani chiari [figura 16]. Il segno è vibrante:
ora deciso ora nervoso. Il riferimento è a Giacometti,
e ai suoi fogli; dove i tratti sovente s'involgono e poi sviano
decisi. E ancora a Giacometti rimontano le prime
sagome umane; per lo più effigiate a mezzo busto all'interno
di vani spartiti da perspicui vettori prospettici; tracciati
però a
mano libera, con linee di carboncino o pastello, che si sovrappongono
come per un aggiustamento di precisione: volti impassibili, sguardi
assorti
in pensieri distanti, ancorché puntati sul riguardante
[figura 17]. Uomini; quasi sempre. Uomini maturi; per solito
seduti dietro tavoli; solitari
e immoti; spesso ritratti accanto a grandi finestre, da cui chiunque,
di fuori, può osservarli; come fossero gli attori d'un
dramma notturno di Edward Hopper. Lui pure, d'altronde, affascinato
dallo stop improvviso
di quella surreale pellicola che registra l'umane esistenze nel
loro corso quotidiano. Lui pure, dunque, cultore del 'tempo sospeso'.
Sono
personaggi - quelli di Giovanni - ch'è difficile figurarsi
di razza mediterranea; e non solo per via delle fattezze. Gli
ambienti che stanno loro d'intorno quasi sempre hanno fogge che
rinviano di là dall'atlantico
(stanze o città che siano). È un'umanità che
silente e rara si muove entro scenari 'sospesi': parchi rigogliosi,
orizzonti d'architetture,
scale mobili in risalita, lungomare azzurri punteggiati da pennacchi
di palme, piazzali d'auto roventi di sole. Sono visioni che da
subito indussero
a presagir sottesa una riflessione dolente (se non proprio angosciata)
sulle solitudini umane, sui deserti delle città, sulla
comunicazione impossibile; insomma sulla condizione afflitta
dell'uomo, che la civiltà attuale
ancor più avvilisce e degrada.
In più d'una circostanza
m'è occorso d'oppormi a questa lettura
delle sue opere; una prima volta - sulla metà degli anni
novanta - addirittura rovesciandola: proponendo cioè di
scorgere semmai "una
vena d'affascinato stupore per la complessità" della
vita, laddove invece si pretendeva struggesse una meditazione
amara sulla sua
aridità7. Anch'io però avvertivo un'inquietudine
sottile nell'epifanie di Giovanni, di cui mi restava difficile
darmi ragione, e
che tuttavia non mi rassegnavo a imputare al generico malessere
della melanconia che pervade l'uomo di fronte alla sua solitudine.
Provai,
un po' dopo, a mettere in un canto la valenza ideologica (o comunque,
sommariamente, esistenziale) e a vagliare la disposizione
peculiare di
Giovanni di fronte alla stagione che gli è toccata da
vivere. Stagione che si pone agli antipodi dell'indole sua. La
volgarità dei miti
odierni, il tripudio dei luoghi comuni, la pigrizia dei ragionamenti,
il frastuono delle televisioni, collidono apertamente con la
discrezione elegante
e còlta di Giovanni, con la generosità che impronta
le sue relazioni con gli altri.
Su questo mi soffermai quando,
quattro o cinque anni dopo, ebbi
a riparlare dei suoi quadri. Mi parve allora che quei silenzi
pensosi, quell'estraneità assorta,
fossero il riverbero dei "sensi del poeta; che, in disparte,
guarda il mondo, pascolianamente incantato dai suoi tempi; per
solito lunghi:
coi mari aperti e i cieli vasti, coi venti che frusciano sulle
piante, coi palazzi alti sugli orizzonti di città senza
folla"8, con
tutto quello, finalmente, che dell'universo umano si salva.
Una
congettura che mi parve confortata dalla risposta data da Giovanni
a chi, in passato, gli aveva chiesto il senso dei suoi "paesaggi
[Są] chiusi dentro inquadrature implacabili, attraversati da
figure dall'identità confusa".
Al quesito aveva detto di non saper rispondere; di non poter
distinguere se in lui fosse "più forte il sentimento
di disagio, di estraneità,
o il piacere estetico di vedere" (possibilità, freudianamente,
lasciata per ultima)9. Questo è il punto: proprio il "piacere
estetico di vedere" è il sentimento - a mio giudizio
- più forte
che lui prova al cospetto del mondo; magari accompagnato da quel
'disagio' e da quell''estraneità' che, non già la
condizione umana, in sé, "gl'impone, bensì [Są]
la sua [personale] disposizione etica"10. Ch'è fuori
tempo. Fuori del tempo, cioè, che
- giustappunto - gli è toccato da vivere.
I suoi stati
d'animo, il suo approccio alla natura e alla vita, ho la sensazione
siano da sempre i medesimi. Quasi che il tempo
si sia
fermato
agli anni
belli della giovinezza. Di quelli serbando soprattutto il candore
e lo sguardo sbalordito sugli eventi. La sua visione s'è come
fissata - si potrebbe dire - in un'assolata istantanea. E l'espressione
di cui
Giovanni si vale per tradurla in forma è una sintesi dell'esperienze
culturali da lui vissute; perché Giovanni - se n'è ragionato
ora - non ha materialmente praticato le vie che si son viste
battute dagli altri artisti di 'Controcampo'; non ha sperimentato
il transito difficile
dalla tradizione alla rottura dell'informale; non ha recuperato
la figurazione veridica fruendo del cuscinetto della pop art;
e non è, infine,
dopo quest'ultimo lavacro, tornato alle origini. Tutte queste
fasi le ha vissute solo sul piano concettuale, coltivandole come
esperienze intellettuali,
traducendole tutt'al più nell'eloquio (esso pure artistico)
della grafica pubblicitaria. È come se di quei linguaggi
avesse sperimentato soltanto la dimensione ideologica, talora
condividendone gli assunti, talaltra
invece marcando la propria diversità. Di sicuro, trascorrendo
la sua produzione, si potrà dire che non gli saranno comunque
rimasti estranei; perché in ogni sua opera riesce agevole
costatare i riverberi dei pensieri da lui elaborati sulle scelte
formali d'artefici grandi, operosi
fuori dei confini nazionali.
E vieppiù riuscirà agevole
sincerarsi di questi suoi interessi quando ci si soffermi sulla
figurazione che proprio in questa rassegna
al Marini viene pubblicata. Qui per la prima volta si vedrà un
nucleo di tele in cui Giovanni affronta il rapporto fra l'uomo
e l'opera d'arte.
Negli ultimi tempi la figura umana aveva preso ad abitare, nei
suoi quadri, le sale dei musei. Rari - ma, più spesso,
solitari - visitatori sostano davanti a tele che, in quieta e
pausata sequenza, campeggiano sulle
pareti bianche d'ambienti espositivi progettati con intenti razionalistici.
Talora è proprio il museo a essere protagonista: càpita
nella tela dove una donna, affondata nel silenzio d'una fila
di stanze vuote,
se ne sta seduta, con una guida in mano, a fissare un quadro
a noi celato; in un'atmosfera che rammenta l'aura - appunto -
sospesa d'interni danesi
dell'Ottocento [figura 18].
Per solito saranno però le
opere a giocare il ruolo principale. Aggirandosi, anzi, in quei
vani sarà possibile farsi un'idea delle
predilezioni di Giovanni, e alla fine scoprire, magari con un
po' di sorpresa, che mai su quei muri è esibita una tela
di Edward Hopper o di David Hokney, pittori che ognuno a buon
diritto si figura fra quelli amatissimi
da lui. Si vedranno semmai larghe impaginazioni informali, che
sono però,
non già repliche, bensì veridiche divagazioni su
temi dipinti da Franz Kline, da Hans Hartung, da Jakson Pollock
o da Willem De Kooning,
da quegli artisti cioè di cui Giovanni (lontano dalla
pittura) non ha potuto giovarsi quand'era la stagione giusta,
ma che sono nel novero
di quelli che tenne sott'occhio [figura 19].
Succederà poi
di traguardare, sui grandi divisori d'ampie sale, sempre di geometrica
partizione, omaggi a scultori tra i suoi favoriti;
com'è nel caso della storia di san Martino (scabra di
biacche e terre) desunta dall'invenzione di Marino Marini [figura
20]. Ci s'imbatterà in
locali in cui l'uomo è ritto in mezzo ai misteriosi totem
di bronzo di Henry Moore: ieratiche figure posate su plinti e
rischiarate da fasci
di luci che spiovono dal soffitto [figura 21]. Sovente accadrà poi
d'imbattersi nei lavori d'Alberto Giacometti, lo scultore che
forse più d'ogni
altro ha suggestionato l'idioma di Giovanni [figura 22]. E lì il
dialogo si farà serrato e carico d'emozioni; quasi fosse
l'esito d'un alunnato ideale che il tempo ha chiuso.
Oggi Giovanni
- come appunto si diceva - illustra la relazione diretta fra
l'uomo e l'opera. Il contesto, il museo, si perdono.
L'uomo osserva
l'opera, e al suo cospetto è solo. Benché la gestualità sia
raggelata, dovrebbe pur sempre essere lui a esprimere il senso
dell'esistenza. E invece è la statica e muta presenza
delle sculture a render vitale e perfino dinamica la scena. Perché sono
le opere, col loro autonomo linguaggio, coi sentimenti che del
loro artefice trattengono, con le trame
d'affetti che l'hanno generate, coi segreti che serbano e chiedon
d'essere interpretati, gli attori principali.
A noi ora verrà di
confrontare la pensosa attitudine di questi personaggi dai tratti
somatici appena accennati (e talora anonimi, quando non proprio
senza volto) con quella di coloro che - parimenti meditabondi
e assorti
- si muovono nei prati di parchi deserti o per le piazze di città spopolate.
E nel riscontro verrà di rammentare che a quest'ultimi è stato
il più delle volte attribuito uno stato d'afflizione.
Le prove recenti di Giovanni - dove l'uomo sèguita a presentarsi
con le medesime sembianze, che non possono però sottendere
sentimenti di melanconia o addirittura d'angoscia - potrebbero
allora farsi spia o attestato della
fondatezza di quella congettura che qui sopra s'è formulata
e che propone di leggere nei quadri di Giovanni non i turbamenti
dell'uomo solo,
bensì il suo stupefatto approccio a quanto sempre la vita
offre di nuovo e d'insolito.
Gli uomini di Giovanni davanti alle
sculture o ai quadri s'interrogano. O forse semplicemente guardano.
Ma lo fanno come colui ch'esercita
e impegna la mente e il cuore. Guardano il mondo. Finalmente
vedendo il
miracolo
nell'ordinario.
Presentazione di Carlo Sisi
L'ora sospesa di Antonio Natali
Senza calma né ansia di Federica Chezzi
Giovanni
Paszkowski L'ora sospesa
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Arte: eventi in programma e in
corso
Arte: mostre concluse