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Firenze

"De Chirico Max Ernst, Magritte e Balthus. Uno sguardo nell'invisibile" Fino al 18 luglio 2010


©www.zoomedia.it - vanna innocenti 24 febbraio 2010
Nell'immagine, Paolo Baldacci, introduce alla mostra "De Chirico Max Ernst, Magritte e Balthus. Uno sguardo nell'invisibile", nella Sala Ferri del Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux.

VADEMECUM PER LA MOSTRA
di Paolo Baldacci, Guido Magnaguagno, Gerd Roos

"Questa mostra raccoglie attorno a un unico tema opere di dieci artisti. Ognuno di loro ha inventato immagini e scene che non si incontrano nella realtà esterna, o ha rappresentato gli oggetti percepiti dai nostri sensi in associazioni strane e con un tale estremo e glaciale realismo da indurre in noi la sensazione di una misteriosa vita della materia oltre le apparenze visibili.
Ciò che era visibile a tutti questi artisti non lo hanno ritenuto sufficiente per esprimere la loro condizione interiore, e, nonostante fossero legati alla tradizione figurativa e al mondo oggettuale e quindi lontani dal percorso ideale dell’astrazione, hanno per così dire guardato dietro le apparenze. Il loro sguardo ha scoperto mondi di immagini fantastiche, realtà mutate, stranissimi incontri di persone e oggetti. La realtà che li circondava divenne ai loro occhi un mistero impenetrabile, e l’esistenza un groviglio di enigmi, ed essi diedero forma a questo “invisibile” con la loro arte pittorica trasfigurandolo in magia.

De Chirico per primo si pose come scopo di “far vedere ciò che non si può vedere”, e attraverso l’esperienza intuitiva della “rivelazione” riuscì a trasfigurare la realtà materiale e concreta in qualcosa di completamente nuovo e suggestivo, cogliendo il suo sembiante interiore e facendo emergere il variegato “spettro” dei suoi significati. Subito dopo di lui, Max Ernst percorse da esploratore ardito la sottile linea di confine che divide la volontà dell’artista e le scelte fantastiche della sua immaginazione dai suggerimenti del caso. Un dipinto, diceva infine Magritte, deve essere prima pensato, e poi eseguito.

Cominciando con De Chirico, essi formularono e svilupparono il concetto di “quadro nel quadro”: una vera e propria sfida al linguaggio e agli schemi acquisiti della comunicazione visiva, che destabilizza i concetti di realtà e finzione.

I dipinti esposti in questa mostra vennero realizzati tra il 1911 e il 1954 e abbracciano quasi mezzo secolo, l’epoca della “modernità classica”.
Non il più vecchio, ma il primo in ordine di tempo di questi artisti, e quindi punto di partenza del nostro viaggio, è l’inventore italiano della Pittura Metafisica, Giorgio de Chirico, nato nel 1888 a Volo, in Grecia, e poi vissuto in Italia e a Parigi.

È particolarmente significativo che questa mostra si svolga a Firenze, città nella quale, durante un viaggio effettuato nell’ottobre del 1909, De Chirico, indebolito e reso acutamente sensibile da una lunga malattia intestinale, andò soggetto in piazza Santa Croce a una delle prime esperienze di quel fenomeno da lui poi chiamato “rivelazione”. Statue, edifici, atmosfera e ambiente circostante, visioni precedenti e letture precipitarono nella sua mente convergendo in una visione completamente trasfigurata della realtà che stava davanti ai suoi occhi. Forse anche per
questo, De Chirico si dichiarò “nato a Firenze” nei primi cataloghi dei Salons parigini, e nella sua pittura aleggia tanta eco del più severo Rinascimento toscano.

De Chirico è affiancato dai suoi seguaci italiani Carlo Carrà (nato nel 1881), con il quale ebbe un breve sodalizio a Ferrara nel 1917, e Giorgio Morandi, che vide “la luce e gli oggetti del mondo” a Bologna nel 1890. Il primo si innamorò in modo camaleontico delle strutture formali della Pittura Metafisica, di cui diede luminose e seducenti interpretazioni, trovando i mezzi per avvicinarsi a una dimensione spirituale della materia che se è lontana dagli obiettivi nichilistici di De Chirico costituì comunque un solido ponte di collegamento col Realismo Magico. Il secondo selezionò con severa coscienza gli elementi a lui più congeniali di rigore geometrico e plastico per procedere a una sua personale ricostruzione del mondo degli oggetti dove ciò che è morto diventa musicalmente vivo e ciò che è vivo viene definito per sempre come fosse cosa inanimata.

Questo tipo di arte, che dà voce alla solitudine e al senso di estraneità e di smarrimento prodotti dalla scoperta nichilista della mancanza di logica e di significato del mondo, ha origine da una profonda meditazione attorno al pensiero di Friedrich Nietzsche e si manifestò in Italia sotto la spinta di De Chirico. Ma sensazioni simili erano state avvertite a Parigi, dove De Chirico lavorava, prima dello scoppio della guerra, soprattutto grazie all’intuizione di un grande poeta e interprete dell’arte contemporanea come Guillaume Apollinaire. Ed è questa nuova sensibilità artistica, nutrita di letture e di filosofia, di coscienza del passato e di interiorizzazioni della memoria, così come di consapevolezza del profondo e degli enigmi dell’anima, che impronta di sé tutta la scena europea tra le due guerre dopo la fine delle avanguardie, come ebbe a cogliere tra i primi il grande studioso americano di De Chirico James Thrall Soby con l’icastico titolo After Picasso del suo saggio del 1935.
È indubbio che l’angoscia metafisica di De Chirico anticipò l’immane crollo della guerra mondiale, così come sul piano artistico il Dada e il Surrealismo, coi loro sguardi aperti sul nulla e sugli abissi dell’inconscio ne furono le conseguenze immediate.

Il caratteristico mondo di immagini metafisiche di De Chirico si compone di temi e di motivi attraverso i quali egli sviluppa una sua fantasmagoria interiore senza ripetersi altro che in apparenza e ricorrendo a una stesura pittorica e stilistica in continua evoluzione. I fantasmi potenti che emergono dalla sua particolarissima anamnesi personale, familiare e culturale formano un ciclo di immagini che più tardi, attraverso le ripetizioni commerciali, diventeranno uno dei repertori iconografici più popolari e influenti del secolo xx. Ne fanno parte le piazze vuote, colte nelle oblique ore pomeridiane, le fughe vertiginose di portici e di strade, le stanze spoglie, le quinte architettoniche, i palcoscenici aperti, i piani inclinati. Vedute da finestre cieche, porte socchiuse, pavimenti innaturali. Muri di mattoni, antiche rovine, statue solitarie. Orizzonti lontani, vele e treni. Oggetti in ambienti misteriosi e insensati, proporzioni rovesciate, ombre fitte e luce splendente. Protagonisti dell’attesa e della sospensione, del silenzio, colti negli spazi immaginari della solitudine, della nostalgia, dei ricordi e delle visioni, dell’eternità pietrificata, dei sogni ad occhi aperti e del sonno, dei pensieri nel regno dell’invisibile.

Il rapporto con De Chirico prende corpo per Max Ernst nel 1919. Subito dopo aver visto le riproduzioni dei suoi quadri e di quelli di Carrà nella rivista «Valori Plastici», egli creò la celebre cartella di litografie Fiat modes, pereat ars. Più tardi, nel 1924, copiò per Paul e Gala Éluard l’Enigma di un pomeriggio d’autunno, la prima opera metafisica di De Chirico. E con la tecnica del collage introdusse nel mondo artistico il mezzo espressivo ideale per rappresentare lo smembramento, la dissoluzione, la dispersione e la frammentazione tipici dell’esistenza contemporanea.
Ernst è però anche colui che rompe prepotentemente le barriere del silenzio quando guarda nel mondo sconosciuto: egli si trasforma allora nel suo allegro Traumtänzer. Un passeggiatore nel regno dell’inconscio. Un liberatore di eros e di sessualità.

Un altro artista fondamentale per l’arte del xx secolo, René Magritte, sviluppa le visioni dei suoi quadri come in una sovrapposizione e illusione continua. Nato nel 1898 in Belgio, era di un decennio più giovane del suo grande predecessore e da quando, nel 1925, si ispirò al dipinto Le chant d’amour (1914) il suo mondo di immagini mutò improvvisamente e produsse un capolavoro dopo l’altro. Magritte ricordava la conoscenza del dipinto di De Chirico come uno dei momenti più commoventi della sua vita e ancora nel 1938, nella conferenza “La ligne de vie”, tenuta ad Anversa, ebbe a dire del suo modello:
È una rottura completa con le abitudini mentali tipiche degli artisti prigionieri del talento, del virtuosismo e di tutti piccoli trucchi estetici. È una visione nuova, nella quale lo spettatore ritrova il suo isolamento e sente il silenzio del mondo.
“ Il silenzio del mondo”, ecco un altro possibile titolo del nostro progetto. Esso permette di tracciare una sorta di linea interiore. Il vuoto, il silenzio, l’enigma di un pomeriggio, la magia della notte, la vita come mistero; oppure per dirla col titolo di un dipinto di Magritte, il quadro come “chiave dei sogni”.

La ligne de vie che da De Chirico conduce al Surrealismo e ad André Breton è quindi tracciata. Una seconda linea, più rigorosa e aspra, conduce invece dall’Italia verso la Germania. Qui, nel 1924, il direttore del Museo di Mannheim, Gustav Hartlaub, riunì sotto il nome di Nuova Oggettività le tendenze estetiche che in seguito all’esperienza della guerra e della crisi avevano dato un’interpretazione della realtà come qualcosa di gelido e straniante.
Il senso di alienazione dell’uomo si rispecchiò allora nei ritratti taglienti di Christian Schad, nella critica sociale di Georg Grosz o di Otto Dix, così come nell’opera dello svizzero Niklaus Stoecklin (nato nel 1896) che ebbe in quell’ambito un ruolo da protagonista. Per lui, come per Schrimpf, Kanoldt e altri, la natura morta costituì il mezzo privilegiato per arricchire di tratti iperreali e surreali la materialità delle cose, un po’ come nella prima glaciale opera di Morandi, mentre il suo interesse per i manichini, per l’uomo artificiale e per le macchine rimandavano a De Chirico e a Carrà metafisici.

Nell’ampia parentesi del dopoguerra le opere cosiddette “neoclassiche” di De Chirico degli anni Venti si rivelarono una fertile fonte visiva sia per suo fratello Alberto Savinio sia per Arturo Nathan, nato a Trieste nel 1891, lo stesso anno di Max Ernst. Il fallimento della cultura borghese si era abbattuto sul tentativo novecentesco di far rinascere una “antichità”, ed essa poteva risorgere solo sotto forma di relitto o rovina, come ci mostra Nathan con la sua pittura scura, persino cupa, che ci appare come un commiato e una presa di distanza dagli allegri elementi scenografici volanti di Savinio che si sguinzagliano nei cieli della sua opera d’arte totale.
Le discrepanze e le incongruenze sono enormi, negli interni di De Chirico dépaysagiste, come lo definì Cocteau, irrompono i paesaggi, e i mobili arredano le campagne, mentre nell’immaginazione pittorica di Magritte regna un “mondo totalmente capovolto”, fino alla dissoluzione del nesso tra parola e immagine, fino al trionfo dell’illusione.
A Pierre Roy, il più anziano del nostro gruppo, nato a Nantes nel 1880, e a Balthus (Balthasar Klossowski), cosmopolita di origini polacche con passaporto tedesco nato a Parigi nel 1908, tocca il compito di darci una conclusione coerente, sintetica e armonizzante di tutto l’insieme.
Nelle mondo delle nature morte di Pierre Roy entrano di continuo in scena oggetti contrastanti che si raggruppano poi in insiemi poetici vicini a quel Realismo Magico che usa avvolgere in una delicata guaina le pericolose asprezze della natura.
Con questa poetica atmosfera ci seduce anche Balthus, l’amico di Rainer Maria Rilke, anche se sotto i suoi tappeti e i suoi tavoli potrebbero benissimo essere in agguato dei mostri. L’eros, che nella vita e nelle opere di De Chirico e di Magritte venne represso e frustrato, e che rifiorisce grandioso solo negli splendidi dipinti di Max Ernst, annuncia timidamente il proprio ritorno. Non tutto è perduto.

Su un fondamento di mitologia personale, nello spazio ideale che collegava Nietzsche e Freud, si manifestarono nel giovane De Chirico il distacco dalla realtà visibile e l’orientamento verso il fantastico e il metafisico, già presenti nelle opere di Arnold Böcklin, di cui egli era stato un entusiasta seguace e imitatore.

La traccia sviluppata in questa esposizione era già stata individuata nel 1997-1998 da un’importante mostra allestita a Zurigo (Kunsthaus), poi passata a Monaco (Haus der Kunst) e a Berlino (Nationalgalerie): “Arnold Böcklin, Giorgio de Chirico, Max Ernst. Eine Reise ins Ungewisse (“Arnold Böcklin, Giorgio de Chirico, Max Ernst. Un viaggio nell’ignoto”) delineò un percorso di immagini in territori sconosciuti e promosse, ben al di là dei rapporti evidenti, la conoscenza di una sorta di antropologia interiore dell’uomo moderno. Il primato della visione interiore divenne chiaro.

“Uno sguardo nell’invisibile” rappresenta una tappa successiva del medesimo viaggio e ci insegna a esplorare meglio il mistero della nostra esistenza.


Indice della mostra "De Chirico, Max Ernst, Magritte, Balthus. Uno sguardo nell'invisibile" - Biografia di De Chirico

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Mostre in Palazzo Strozzi

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Pagina pubblicata il 26-03-2010 - Aggiornato il 23-Mar-2010