VADEMECUM PER LA MOSTRA
di
Paolo Baldacci, Guido Magnaguagno, Gerd Roos
"Questa mostra raccoglie attorno a un unico tema opere
di dieci artisti. Ognuno di loro ha inventato immagini e scene che
non si incontrano
nella realtà esterna, o ha rappresentato gli oggetti percepiti
dai nostri sensi in associazioni strane e con un tale estremo e glaciale
realismo da indurre in noi la sensazione di una misteriosa vita della
materia oltre le apparenze visibili.
Ciò che era visibile a tutti questi artisti non lo hanno ritenuto
sufficiente per esprimere la loro condizione interiore, e, nonostante
fossero legati alla tradizione figurativa e al mondo oggettuale e quindi
lontani dal percorso ideale dell’astrazione, hanno per così dire
guardato dietro le apparenze. Il loro sguardo ha scoperto mondi di
immagini fantastiche, realtà mutate, stranissimi incontri di
persone e oggetti. La realtà che li circondava divenne ai loro
occhi un mistero impenetrabile, e l’esistenza un groviglio di
enigmi, ed essi diedero forma a questo “invisibile” con
la loro arte pittorica trasfigurandolo in magia.
De Chirico per primo
si pose come scopo di “far vedere ciò che
non si può vedere”, e attraverso l’esperienza intuitiva
della “rivelazione” riuscì a trasfigurare la realtà materiale
e concreta in qualcosa di completamente nuovo e suggestivo, cogliendo
il suo sembiante interiore e facendo emergere il variegato “spettro” dei
suoi significati. Subito dopo di lui, Max Ernst percorse da esploratore
ardito la sottile linea di confine che divide la volontà dell’artista
e le scelte fantastiche della sua immaginazione dai suggerimenti
del caso. Un dipinto, diceva infine Magritte, deve essere prima pensato,
e poi eseguito.
Cominciando con De Chirico, essi formularono e svilupparono
il concetto di “quadro nel quadro”: una vera e propria
sfida al linguaggio e agli schemi acquisiti della comunicazione visiva,
che destabilizza
i concetti di realtà e finzione.
I dipinti esposti in questa
mostra vennero realizzati tra il 1911 e il 1954 e abbracciano
quasi mezzo secolo, l’epoca della “modernità classica”.
Non il più vecchio, ma il primo in ordine di tempo di questi
artisti, e quindi punto di partenza del nostro viaggio, è l’inventore
italiano della Pittura Metafisica, Giorgio de Chirico, nato nel
1888 a Volo, in Grecia, e poi vissuto in Italia e a Parigi.
È
particolarmente significativo che questa mostra si
svolga a Firenze, città nella quale, durante un viaggio effettuato nell’ottobre
del 1909, De Chirico, indebolito e reso acutamente sensibile da una
lunga malattia intestinale, andò soggetto in piazza
Santa Croce a una delle prime esperienze di quel fenomeno da lui poi chiamato “rivelazione”.
Statue, edifici, atmosfera e ambiente circostante, visioni precedenti
e letture precipitarono nella sua mente convergendo in una visione
completamente trasfigurata della realtà che stava davanti
ai suoi occhi. Forse anche per
questo, De Chirico si dichiarò “nato a Firenze” nei
primi cataloghi dei Salons parigini, e nella sua pittura aleggia
tanta eco del più severo Rinascimento toscano.
De Chirico è affiancato
dai suoi seguaci italiani Carlo Carrà (nato
nel 1881), con il quale ebbe un breve sodalizio a Ferrara nel
1917, e Giorgio Morandi, che vide “la luce e gli oggetti
del mondo” a
Bologna nel 1890. Il primo si innamorò in modo camaleontico
delle strutture formali della Pittura Metafisica, di cui diede
luminose e seducenti interpretazioni, trovando i mezzi per
avvicinarsi a una
dimensione spirituale della materia che se è lontana
dagli obiettivi nichilistici di De Chirico costituì comunque
un solido ponte di collegamento col Realismo Magico. Il secondo
selezionò con
severa coscienza gli elementi a lui più congeniali di
rigore geometrico e plastico per procedere a una sua personale
ricostruzione
del mondo degli oggetti dove ciò che è morto
diventa musicalmente vivo e ciò che è vivo viene
definito per sempre come fosse cosa inanimata.
Questo tipo di
arte, che dà voce alla solitudine e al senso
di estraneità e di smarrimento prodotti dalla scoperta
nichilista della mancanza di logica e di significato del mondo,
ha origine da
una profonda meditazione attorno al pensiero di Friedrich Nietzsche
e si manifestò in Italia sotto la spinta di De Chirico.
Ma sensazioni simili erano state avvertite a Parigi, dove De
Chirico lavorava, prima
dello scoppio della guerra, soprattutto grazie all’intuizione
di un grande poeta e interprete dell’arte contemporanea
come Guillaume Apollinaire. Ed è questa nuova sensibilità artistica,
nutrita di letture e di filosofia, di coscienza del passato
e di interiorizzazioni della memoria, così come di consapevolezza
del profondo e degli enigmi dell’anima, che impronta
di sé tutta la scena europea
tra le due guerre dopo la fine delle avanguardie, come ebbe
a cogliere tra i primi il grande studioso americano di De Chirico
James Thrall
Soby con l’icastico titolo After Picasso del suo saggio
del 1935.
È
indubbio che l’angoscia metafisica di De Chirico anticipò l’immane
crollo della guerra mondiale, così come sul piano artistico
il Dada e il Surrealismo, coi loro sguardi aperti sul nulla e sugli
abissi dell’inconscio ne furono le conseguenze immediate.
Il
caratteristico mondo di immagini metafisiche di De Chirico
si compone di temi e di motivi attraverso i quali egli sviluppa
una
sua fantasmagoria
interiore senza ripetersi altro che in apparenza e ricorrendo
a una stesura pittorica e stilistica in continua evoluzione.
I fantasmi
potenti che emergono dalla sua particolarissima anamnesi personale,
familiare
e culturale formano un ciclo di immagini che più tardi,
attraverso le ripetizioni commerciali, diventeranno uno dei
repertori iconografici
più popolari e influenti del secolo xx. Ne fanno parte
le piazze vuote, colte nelle oblique ore pomeridiane, le fughe
vertiginose di
portici e di strade, le stanze spoglie, le quinte architettoniche,
i palcoscenici aperti, i piani inclinati. Vedute da finestre
cieche, porte socchiuse, pavimenti innaturali. Muri di mattoni,
antiche rovine,
statue solitarie. Orizzonti lontani, vele e treni. Oggetti
in ambienti misteriosi e insensati, proporzioni rovesciate,
ombre fitte e luce
splendente. Protagonisti dell’attesa e della sospensione,
del silenzio, colti negli spazi immaginari della solitudine,
della nostalgia,
dei ricordi e delle visioni, dell’eternità pietrificata,
dei sogni ad occhi aperti e del sonno, dei pensieri nel regno
dell’invisibile.
Il rapporto con
De Chirico prende corpo per Max Ernst nel 1919. Subito dopo aver
visto le riproduzioni dei suoi quadri e di quelli di Carrà nella rivista «Valori
Plastici», egli creò la celebre cartella di litografie
Fiat modes, pereat ars. Più tardi, nel 1924, copiò per
Paul e Gala Éluard l’Enigma di un pomeriggio d’autunno,
la prima opera metafisica di De Chirico. E con la tecnica del collage
introdusse nel mondo artistico il mezzo espressivo ideale per rappresentare
lo smembramento, la dissoluzione, la dispersione e la frammentazione
tipici dell’esistenza contemporanea.
Ernst è però anche colui che rompe prepotentemente
le barriere del silenzio quando guarda nel mondo sconosciuto: egli
si
trasforma allora nel suo allegro Traumtänzer. Un passeggiatore
nel regno dell’inconscio. Un liberatore di eros e di sessualità.
Un
altro artista fondamentale per l’arte del xx secolo, René Magritte,
sviluppa le visioni dei suoi quadri come in una sovrapposizione
e illusione continua. Nato nel 1898 in Belgio, era di un decennio
più giovane
del suo grande predecessore e da quando, nel 1925, si ispirò al
dipinto Le chant d’amour (1914) il suo mondo di immagini
mutò improvvisamente
e produsse un capolavoro dopo l’altro. Magritte ricordava
la conoscenza del dipinto di De Chirico come uno dei momenti più commoventi
della sua vita e ancora nel 1938, nella conferenza “La ligne
de vie”, tenuta ad Anversa, ebbe a dire del suo modello:
È
una rottura completa con le abitudini mentali tipiche degli artisti
prigionieri del talento, del virtuosismo e di tutti piccoli trucchi
estetici. È una visione nuova, nella quale lo spettatore ritrova
il suo isolamento e sente il silenzio del mondo.
“
Il silenzio del mondo”, ecco un altro possibile titolo del
nostro progetto. Esso permette di tracciare una sorta di linea
interiore.
Il vuoto, il silenzio, l’enigma di un pomeriggio, la magia
della notte, la vita come mistero; oppure per dirla col titolo
di un dipinto
di Magritte, il quadro come “chiave dei sogni”.
La ligne
de vie che da De Chirico conduce al Surrealismo e ad André Breton è quindi
tracciata. Una seconda linea, più rigorosa e aspra, conduce
invece dall’Italia verso la Germania. Qui, nel 1924, il direttore
del Museo di Mannheim, Gustav Hartlaub, riunì sotto il nome
di Nuova Oggettività le tendenze estetiche che in seguito
all’esperienza
della guerra e della crisi avevano dato un’interpretazione
della realtà come qualcosa di gelido e straniante.
Il senso
di alienazione dell’uomo si rispecchiò allora nei
ritratti taglienti di Christian Schad, nella critica sociale
di Georg Grosz o di Otto
Dix, così come nell’opera dello svizzero Niklaus
Stoecklin (nato nel 1896) che ebbe in quell’ambito un ruolo
da protagonista. Per lui, come per Schrimpf, Kanoldt e altri,
la natura morta costituì il
mezzo privilegiato per arricchire di tratti iperreali e surreali
la materialità delle cose, un po’ come nella prima
glaciale opera di Morandi, mentre il suo interesse per i manichini,
per l’uomo
artificiale e per le macchine rimandavano a De Chirico e a Carrà metafisici.
Nell’ampia
parentesi del dopoguerra le opere cosiddette “neoclassiche” di
De Chirico degli anni Venti si rivelarono una fertile fonte
visiva sia per suo fratello Alberto Savinio sia per Arturo
Nathan, nato
a Trieste nel 1891, lo stesso anno di Max Ernst. Il fallimento
della
cultura borghese si era abbattuto sul tentativo novecentesco
di far rinascere una “antichità”, ed essa
poteva risorgere solo sotto forma di relitto o rovina, come
ci mostra Nathan con la
sua pittura scura, persino cupa, che ci appare come un commiato
e una presa di distanza dagli allegri elementi scenografici
volanti di
Savinio che
si sguinzagliano nei cieli della sua opera d’arte totale.
Le discrepanze e le incongruenze sono enormi, negli interni
di De Chirico
dépaysagiste, come lo definì Cocteau, irrompono
i paesaggi, e i mobili arredano le campagne, mentre nell’immaginazione
pittorica di Magritte regna un “mondo totalmente capovolto”,
fino alla dissoluzione del nesso tra parola e immagine, fino
al trionfo
dell’illusione.
A Pierre Roy, il più anziano del nostro gruppo, nato a Nantes
nel 1880, e a Balthus (Balthasar Klossowski), cosmopolita di origini
polacche con passaporto tedesco nato a Parigi nel 1908, tocca il compito
di darci una conclusione coerente, sintetica e armonizzante di tutto
l’insieme.
Nelle mondo delle nature morte di Pierre Roy entrano di continuo
in scena oggetti contrastanti che si raggruppano poi in insiemi
poetici vicini a quel Realismo Magico che usa avvolgere in
una delicata guaina
le pericolose asprezze della natura.
Con questa poetica atmosfera ci seduce anche Balthus, l’amico
di Rainer Maria Rilke, anche se sotto i suoi tappeti e i suoi
tavoli potrebbero benissimo essere in agguato dei mostri. L’eros,
che nella vita e nelle opere di De Chirico e di Magritte venne
represso
e frustrato, e che rifiorisce grandioso solo negli splendidi
dipinti di Max Ernst, annuncia timidamente il proprio ritorno.
Non tutto è perduto.
Su un fondamento di mitologia personale,
nello spazio ideale che collegava Nietzsche e Freud, si manifestarono
nel giovane
De Chirico
il distacco
dalla realtà visibile e l’orientamento verso il
fantastico e il metafisico, già presenti nelle opere
di Arnold Böcklin,
di cui egli era stato un entusiasta seguace e imitatore.
La
traccia sviluppata in questa esposizione era già stata
individuata nel 1997-1998 da un’importante mostra allestita
a Zurigo (Kunsthaus), poi passata a Monaco (Haus der Kunst)
e a Berlino (Nationalgalerie): “Arnold
Böcklin, Giorgio de Chirico, Max Ernst. Eine Reise ins
Ungewisse (“Arnold Böcklin, Giorgio de Chirico,
Max Ernst. Un viaggio nell’ignoto”) delineò un
percorso di immagini in territori sconosciuti e promosse, ben
al di là dei rapporti
evidenti, la conoscenza di una sorta di antropologia interiore
dell’uomo
moderno. Il primato della visione interiore divenne chiaro.
“Uno
sguardo nell’invisibile” rappresenta una tappa
successiva del medesimo viaggio e ci insegna a esplorare meglio
il mistero della
nostra esistenza.
Indice della mostra "De Chirico,
Max Ernst, Magritte, Balthus. Uno sguardo nell'invisibile" -
Biografia di De Chirico